Ha raggiunto i primi sei mesi di sperimentazione il cohousing giovanile della Caritas di Saluzzo avviato ad aprile nell’ex casello ferroviario in via Savigliano 30. La “Casetta”, così com’è stato ribattezzato dagli inquilini, ha aperto le porte ad un progetto nato per offrire ad un gruppo di giovani l’opportunità di vivere un’esperienza di convivenza, condivisione e partecipazione, attraverso il volontariato, ai servizi della Caritas.
Si è trattato di un modo nuovo di concepire l’abitare, che mette al centro l’esigenza di trovare soluzioni abitative per giovani con limitate disponibilità economiche, ma desiderosi di autonomia e allo stesso tempo di costruire percorsi di sensibilizzazione al dono, alla carità, alla reciprocità, aperti al territorio.
A novembre la “Casetta” ospita cinque giovani (tre ragazzi e due ragazze), dei quali alcuni sono diventati coinquilini già dal primo mese di avvio del progetto. Li abbiamo incontrati per capire come abbiano vissuto questi mesi, affrontando una convivenza accompagnata da attività di volontariato, eventi progettati da loro, incontri con realtà del territorio. Un bilancio dei primi sei mesi e cosa si aspettano di realizzare in futuro.
Sono trascorsi i primi sei mesi, come state vivendo questa esperienza di convivenza?
Maria Cristina: “Sono stati sei mesi molto belli e intensi. Questo luogo, un ex casello ferroviario, è per sua natura un punto di passaggio: in questi mesi siamo stati capaci di aprirlo alla comunità, coinvolgendo persone che forse non avrebbero mai incontrato la realtà della Caritas. Abbiamo fatto da tramite per portare al di fuori della casa tematiche che ci stanno a cuore. Dal punto di vista della convivenza non è scontato compattarsi e riuscire prendere la forma di una “famiglia”, ridimensionando in maniera equilibrata il nostro quotidiano. Fin dall’inizio ci siamo molto aiutati per confrontarci e unificare le nostre vite. Adesso, secondo me, abbiamo preso una bella piega ed è sicuramente molto utile perché ci permette di accogliere meglio persone nuove. L’impegno è tanto, ma anche ciò che ci ritorna. Sono sicura che, quando termineremo la nostra esperienza, rimarremo stupiti pensando a cosa abbiamo vissuto.”
Enrico: “L’obiettivo del progetto, quando siamo arrivati, era costruire. La casa c’era, ma bisognava in qualche modo costruire gli abitanti, l’elemento più presente nelle nostre giornate. L’espressione più bella, secondo me è stata proprio questa: il traffico di persone, idee, progetti che ha lasciato tanto. Arrivi a coinvolgere così tanto di te in una realtà come questa, che ti senti parte della casa.”
Michela: “Se penso al tempo passato da quando siamo entrati, sono molto contenta e se tornassi indietro rifarei questa scelta. Ero consapevoleche mi sarei trovata di fronte ad un impegno, ma non pensavo di arrivare a stravolgere in positivo così tanti aspetti della mia quotidianità. È un impegno non indifferente, ma al tempo stesso mi è servito molto sia fare volontariato sia le persone che abbiamo incontrato in questo percorso. L’estate è stata molto bella e ricca, mi è piaciuto vivere questo via vai di coinquilini che, anche se solo per poco tempo, hanno saputo trasmettere qualcosa di loro. Tutto questo ha reso la “Casetta” un punto di incontro di opinioni e persone.”
Per molti di voi era, probabilmente, la prima esperienza di convivenza al di fuori della famiglia. Al di là degli aspetti positivi, ci sono state criticità?
Maria Cristina: “Tutti noi siamo impegnanti in molte attività, abbiamo una vita al di fuori di questo luogo, che si intreccia con altre realtà e progetti. In un contesto com questo è stato un aspetto un po’ critico perché spesso rendeva difficile riuscire a trovare anche solo per passare del tempo insieme.”
Enrico: “Nonostante all’università vivessi con persone che conoscevo da tempo, spesso erano meno strutturate. Entrando qui ho trovato meraviglie soprattutto a livello di persone e infrastrutture. Le eventuali criticità, a mio avviso, riguardano prettamente la convivenza, come accade in ogni contesto simile. Bere una birra tra di noi o vedere un film insieme spesso risultano difficili da organizzare perché dobbiamo coordinare tutti i nostri impegni.”
Michela: “Anche per me la criticità maggiore, forse davvero l’unica, è legata al tempo che riusciamo a passare insieme nel quotidiano. In sei mesi abbiamo capito anche molte cose che avevamo dato per scontate. Per me era la prima esperienza di convivenza e stare qui mi ha divertito molto, ma anche formato. È stata una sfida ed un modo per mettersi alla prova prendersi delle responsabilità in un gruppo. Secondo me, finora la nostra convivenza è stata agevolata dal fatto che siamo tutti più o meno della stessa età, con abitudini, culture e stili di vita simili.”
Sono stati mesi anche di progetti. Come vi siete sentiti a realizzare serate come quelle di “Nuovo Cinema Casetta”?
Maria Cristina: ” “Nuovo Cinema Casetta” è nato dal desiderio condiviso di far conoscere il mondo Caritas e parlare di argomenti che ci sono cari, specie legati al tema dell’immigrazione. A giugno abbiamo proiettato nel giardino il documentario “Di P.A.S.saggio” realizzato da Libera Piemonte sulla situazione dei braccianti saluzzesi. Nella realizzazione i compiti sono stati divisi in modi differente e vogliamo ringraziare Giacomo, che ha appena concluso la sua esperienza in “Casetta”, per l’enorme impegno che ha messo.
Le persone sono arrivate e le parole non se ne sono andate. Pensiamo di essere riusciti nell’intento di aprire le porte di questa casa anche per donare qualcosa.”
Michela: “La capacità di far rete sul territorio è stata sicuramente la chiave degli eventi. Dopo la prima serata, con 50 persone nel nostro giardino, abbiamo capito che era necessario continuare. Oltre alla proiezione di documentari, è stato molto importante lasciare uno spazio per il confronto e le parole, per capire quanto il documentario avesse stimolato chi aveva deciso di partecipare. Per quanto riguarda l’organizzazione, inizialmente c’è stato un grande appoggio da più persone (ad esempio l’orto collettivo La Milpa). “Nuovo Cinema Casetta” è stato cinema, performance teatrali, talk, live painting, musica e scambio di idee.”
Enrico: “La spinta a realizzare queste serate che ci hanno dato dato Libera Piemonte e Libera Saluzzo è stata molto importante. “Nuove Cinema Casetta” ha proposto un nuovo tipo di coinvolgimento. Abbiamo invitato la gente perché volevamo dire e far vedere loro qualcosa: non sono mai stati momenti pesanti, ma di festa, in cui siamo riusciti a mostrare una casa e un giardino pieni di giovani il cui desiderio era di condividere pasti, tempo e la fatica che la costruzione di un’esperienza del genere comporta. Il bello è stato vedere tutto risuonare nel nostro giardino. L’essere riusciti a coinvolgere amici che mai avevano avuto contatti con Caritas per noi è stato estremamente importante: chi si è avvicinato ha saputo cogliere che avevamo qualcosa da dire e ci ha dato fiducia. Mi sono meravigliato nel vedere persone così attive, che reagivano ai nostri input.”
A chi vive nella “Casetta” è chiesto di fare anche volontariato in Caritas. Quanto è stato importante fare questo tipo di esperienza?
Enrico: “Il volontariato è un’esperienza che ho cercato. Avere questa possibilità così connessa al posto in cui adesso vivo è stato fondamentale perchè mi ha permesso di dire che ci sono tante cose che non funzionano a Saluzzo, ma al tempo stesso che c’è spazio anche per portare avanti un bel lavoro. Incontrare questa umanità attraverso il volontariato mi ha permesso di non essere scontato nella mia scelta. È stato un passaggio importante e silenzioso di cui me ne rendo conto solo ora, a fine stagione, quando molti ragazzi tornano a salutarmi, mi chiamano per nome e mi dicono che stanno per partire. Questo mi ha fatto capire che ciò che ho fatto, in qualche modo è stato riconosciuto.”
Michela: “Prima di arrivare qui volevo fare volontariato in Caritas, poi per vari motivi mi sono tirata indietro. Vivere qui mi ha permesso di andare oltre il mio primo timore. Mi ha fato capire che un’esperienza del genere è importante, che potrà continuare in futuro anche se deciderò di non vivere più qui. In particolare mi sono occupata principalmente della compilazione dei curriculum all’Infopoint. Mi è piaciuto perchè ho potuto entrare a contatto con le persone. Dovendo scrivere informazioni su chi avevo davanti mi ritrovavo a chiacchierare, arrivando ad essere completamente catapultata nella sua vita. Essere una volontaria è stata anche una forma di gratitudine nei confronti della Caritas che ci sta dando un’opportunità enorme.”
Maria Cristna: “Essendo di Alba l’unico motivo per cui sono arrivata qui, più di un anno fa, è il volontariato, quindi un aspetto molto forte per me. Ho trovato un gruppo di giovani che sa accogliere i volontari e li sa far entrare nella complessa realtà saluzzese che si adopera per gli stagionali. Per me il volontariato è stato anche parte della scelta di continuare vivere a Saluzzo. La “Casetta” inoltre è a pochi metri dal Foro Boario e per tutta l’estate ci siamo ritrovati a osservare l’arrivo di centinaia di persone ed anche ora che fa freddo basta affacciarsi per continuare a vedere tanti lavoratori stagionali che passano con le loro biciclette. Fare volontariato in questa città è anche una presa di coscienza forte, un non essere indifferenti ad una situazione che capita davanti ai nostri occhi.”
Maria Cristina, lo scorso anno hai visto nascere il progetto, come lo vedi nel futuro?
Maria Cristina: “La Caritas con questo progetto ha sicuramente aperto le porte ai giovani, saluzzesi e non. Il cohousing era partito come esperienza di coabitazione tra volontarie che venivano da fuori Saluzzo poi sono stati inclusi anche altri ragazzi ed ora assistiamo ad un terzo livello di sviluppo ovvero l’apertura agli utenti, giovani che hanno manifestato la voglia di provare un’esperienza abitativa differente. Mi immagino che questo progetto, ad oggi è inserito nella piattaforma “Io abito social” della Compagnia di San Paolo, andrà avanti. In questi mesi ci siamo impegnati per creare un regolamento e una struttura abitativa che mi auguro possa aiutare anche chi vivrà qui nel futuro.”
Enrico e Michela, osservando la vostra esperienza, cosa vi aspettate in futuro di questa convivenza?
Enrico: “Quando ho sentito della nascita di questa iniziativa a Saluzzo non mi sembrava vero e tutt’ora non mi sembra vero che non ci sia continuamente qualcuno che bussa per diventare un inquilino. Il merito di questo progetto va alla Caritas che ha deciso di aprire queste porte. Noi abbiamo provato a costruire l’idea che ci debbano essere sempre dei progetti in divenire. Il cinema e gli eventi nel giardino mi auguro possano essere il nostro lascito, una traccia che chi verrà dopo potrà portare avanti. Abbiamo aperto una strada e mi piacerebbe che qualcun altro la segua.”
Michela: “Sono molto fiduciosa che questo progetto continui anche quando non ci sarà più nessuno di noi perchè si tratta di una grande ricchezza a Saluzzo. L’unica cosa che mi dispiace è che pochi giovani ne siano ancora al corrente. Partecipare agli eventi potrebbe essere già una grande un’opportunità per molti. Penso che noi abbiamo avuto un ruolo importante: l’obiettivo era creare la base di un progetto vissuto. Mi piace pensare che quanto abbiamo fatto possa essere in qualche modo recuperato da chi verrà. Ci sono molte cose che possono essere cambiate e migliorate, ma sono certa che la strada sarà tutta in discesa d’ora in poi.”
Vogliamo dedicare un ringraziamento speciale a Giacomo, Edoardo, Martina, Noemi, Egle e Maria Giulia che hanno contribuito a dar forma a questa esperienza vivendo insieme o prima di noi in questi mesi nella “Casetta” e offrendo il loro impegno per creare unione e condivisione.
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Il progetto di “Accoglienza Diffusa” per i braccianti stagionali vede un ampio ruolo di monitoraggio e accompagnamento da parte degli operatori della nostra Caritas. Tramite la referente Virginia Sabbatini, abbiamo voluto riportare il loro punto di vista su un modello che, come descritto nelle due News (parte 1 e parte 2) sul nostro sito, presenta notevoli punti di forza, ma anche criticità rispetto alle quali abbiamo proposto una serie di riflessioni.
Virginia, con quali obiettivi è nato il progetto dell’“Accoglienza Diffusa”?
“Questo progetto è nato in un contesto dove la precarietà abitativa è una condizione costante e paralizzante per i lavoratori stagionali. Le sistemazioni messe a disposizione garantiscono, invece, l’accesso ad un alloggiamento dignitoso e dotato di servizi adeguati. Le “Accoglienze Diffuse”, infatti, sono strutturate per accogliere al massimo 40 persone, in appartamenti, case o campi di container nei quali l’attenzione agli spazi è primaria. Si crea così un contesto più vicino al concetto di “casa”, una maggiore intimità, autonomia e dignità del vivere. Gli effetti positivi sono molteplici”.
Come cambia, all’interno di questo sistema, il ruolo dei braccianti?
“Diciamo che diventano finalmente “protagonisti dell’abitare”. I braccianti che riescono ad accedere ad un alloggiamento adeguato hanno cura del posto in cui abitano. La convivenza e la quotidianità sono autogestite, gli operatori facilitano e stimolano un rapporto di collaborazione tra gli ospiti nella gestione e pulizia degli spazi comuni. Senza dimenticare che è prevista da parte loro una compartecipazione economica”.
Quali sono gli effetti che riscontrate sulla qualità di vita dei braccianti e del loro lavoro?
“Innanzitutto si trovano a vivere molto più vicino al luogo di lavoro: un aspetto significativo per prevenire gli infortuni. I braccianti, infatti, sono molto più esposti ad infortuni se arrivano sui campi affaticati dai lunghi tratti in bicicletta. Inoltre si incide sul rischio di incidenti mentre raggiungono il posto di lavoro, una piaga che aumenta drammaticamente nella stagione autunnale quando, alla fine della giornata, ripartono percorrendo strade già buie.
Le persone accolte a Costigliole, ad esempio, quando dormivano ancora nella zona del Foro Boario erano costrette a svegliarsi ogni mattina alle 5 per avere il tempo di lavarsi e mangiare, viste le lunghe code che si creano in un posto sovraffollato dove i lavandini e i punti cottura sono pochi. Dopo salivano in sella percorrendo in bicicletta almeno 10 chilometri all’andata e altrettanti al ritorno, dopo nove o dieci ore di lavoro nei campi, dal lunedì al sabato. L’avvicinamento al luogo di lavoro, inoltre, contribuisce a contrastare la diffusione di servizi di trasporto illeciti o affidati ad intermediari o caporali”.
Quale impatto ha l’“Accoglienza Diffusa” sulle comunità in cui sono nate le strutture?
“Questo modello facilita l’integrazione e l’inserimento sociale: i piccoli numeri e gli spazi adeguati favoriscono la creazione di una rete sociale, l’instaurarsi di rapporti di buon vicinato e il rispetto delle norme di convivenza. A Verzuolo, ad esempio, i cittadini hanno organizzato delle serate per insegnare agli stagionali il sistema di raccolta differenziata “porta a porta” mentre a Saluzzo sono nati numerosi momenti di incontro, cene condivise e piccoli concerti”.
Spesso, rispetto ai luoghi in cui si ritrovano a vivere i braccianti, sentiamo parlare di veri e propri “ghetti” o “baraccopoli”. L’“Accoglienza Diffusa” può rappresentare un’alternativa a questo rischio?
“Crediamo di sì. La diffusione di piccole accoglienze sul territorio per le persone assunte stagionalmente che, con i contratti previsti dalle normative attuali non riescono a trovare alloggi da affittare, previene la formazione di grandi accampamenti abusivi dove la concentrazione delle persone in spazi inadeguati, la marginalità urbana e la mancanza di servizi concorrono a ghettizzare i braccianti, mettendo in pericolo la loro incolumità e quella del vicinato, oltre a cancellare la dignità di queste persone”.
Come si delinea il rapporto tra voi, operatori della Caritas, e le persone che seguite nell’ “Accoglienza Diffusa”?
“La nostra è un’azione di accompagnamento verso l’autonomia. Nelle Accoglienze Diffuse, il rapporto tra gli operatori e le persone ospitate è individuale e quotidiano. Si crea l’opportunità di conoscere meglio i braccianti, rendendo più efficaci e tempestivi gli interventi di cui necessitano (dall’accompagnamento sanitario al supporto per pratiche burocratiche). Come Caritas ci impegnamo a portare le nostre attività di Presidio nelle strutture dell’ “Accoglienza Diffusa”, affiancando gli operatori del Consorzio Monviso Solidale, per rendere più efficace il percorso di accompagnamento e autonomia dei lavoratori”.
Questa attività di monitoraggio ha effetti anche sul rischio di sfruttamento a cui possono essere esposti questi lavoratori?
“Tramite il monitoraggio nelle strutture dell’“Accoglienza Diffusa” emergono con maggiore chiarezza i lavoratori assunti per l’intero periodo di raccolta, nonostante non abbiano sempre rapporti di lavoro continuativi o con la stessa impresa agricola. Considerato il rischio di irregolarità nella costituzione e nello svolgimento dei rapporti di lavoro a cui sono potenzialmente esposti questi lavoratori stagionali, come evidenziato dal rapporto di Caritas Italiana “Vite Sottocosto” e dal recente “Protocollo d’Intesa sulla promozione del lavoro regolare in agricoltura” promosso dalla Regione Piemonte, è fondamentale in ogni progetto di “Accoglienza Diffusa” ragionare sulle modalità di supporto alla legalità. Durante i nostri Presidi mobili, ad esempio, è più facile confrontarsi con loro sulle condizioni di lavoro. Intanto perché è più facile incontrarli, rispetto a quelli che dormono nella cascina dell’azienda agricola per cui lavorano. Inoltre, avendo una sistemazione abitativa indipendente rispetto alla situazione lavorativa, hanno maggiore forza nel chiedere il rispetto dei loro diritti di lavoratori e delle previsioni dei contratti collettivi.
Il bracciante che dorme per strada o in un accampamento abusivo, infine, può incontrare più facilmente degli intermediari e fare affidamento alle reti di sfruttamento che forzano, rendono isolati e vulnerabili le persone che non hanno alcuna alternativa ad un rapporto di lavoro lontano dalla legalità. Nelle “Accoglienze Diffuse” consegnamo i libretti per segnare le giornate e le ore trascorse nei campi: uno strumento per provare a chiedere il riconoscimento del lavoro effettivamente svolto, in un settore nel quale la mancata contribuzione è sistematica. L’evasione contributiva si traduce nell’impossibilità di accedere a tutele e diritti: la disoccupazione agricola, la mutua, l’ottenimento di un permesso di soggiorno…
Uno strumento per chiedere una equa retribuzione e per monitorare straordinari, festivi, giornate di riposo. Riteniamo che alcune situazioni il mancato rispetto dei diritti dei lavoratori derivi dall’attuale funzionamento della filiera agricola: in un settore nel quale si continua a generare ricchezza, i piccoli imprenditori del territorio faticano a coprire i costi di produzione. In questo scenario, oltre ad unirci a loro nel chiedere maggiore trasparenza e una distribuzione più equa alle grandi organizzazioni produttive, pensiamo che gli agricoltori debbano investire nella corretta retribuzione e contribuzione dei loro dipendenti (che in alcuni casi permetterebbe loro di accedere al mercato privato degli affitti) e che possano sfruttare progetti come l'”Accoglienza Diffusa” e i Campus Coldiretti per organizzare meglio le sistemazioni alloggiative dei braccianti non residenti sul territorio. Servirebbe, in questo senso, una richiesta più forte alle amministrazioni dei Comuni non ancora aderenti all'”Accoglienza Diffusa”, per organizzare gli alloggiamenti in funzione del reale fabbisogno del territorio”.
In che modo l’”Accoglienza Diffusa” incide, invece, sul territorio?
“L’Accoglienza Diffusa prevede la costruzione di una partnership tra imprese agricole, lavoratori, enti locali ed associazioni del terzo settore finalizzata a migliorare gli interventi sul territorio. Offre, inoltre, un servizio alle imprese agricole sprovviste di strutture adeguate ad alloggiare i dipendenti stagionali, nel momento in cui siano arrivati al di fuori del “Decreto Flussi”. In alcuni Comuni come Saluzzo e Costigliole, ad esempio, questo sistema ha rappresentato anche un’occasione per riqualificare immobili in disuso”.
L’accompagnamento da parte della Caritas non si limita però all’ ”Accoglienza Diffusa” …
“Per le persone che lavorano sul territorio per un periodo superiore ai 5 mesi, come Caritas, insieme ad altri enti del terzo settore, interveniamo con un progetto di inserimento abitativo di lungo periodo, per facilitare la residenzialità e l’interruzione del percorso migratorio interno del bracciante. Si tratta di una tappa fondamentale del processo di integrazione: crediamo che la residenzialità sia oggi più che mai essenziale nelle pratiche di rinnovo dei permessi di soggiorno, nell’accesso ai servizi e nell’esercizio attivo dei propri diritti”.
[continua]