Questa storia lunga divisa in tre parti, si posiziona tra il resoconto della mia esperienza a Saluzzo dal 2013 a oggi e l’inchiesta stringente sui fatti del contemporaneo. Un ragionamento ampio sullo stato delle cose e su come potrebbero svilupparsi nei prossimi anni. Come trovare vie di integrazione e scambio culturale positivo tra migranti stagionali e autoctoni? Come individuare strade produttive per consentire al comparto frutticolo di uscire da una crisi strutturale? I contenuti audiovisivi e fotografici sono parte integrante del “testo” e cercano di fluire, con la loro brevità, insieme alle parole. Quindi, immagini e parole, andrebbero fruite in continuità, all’interno di una narrazione multidimensionale. Infine, ho intitolato questa indagine “Cosa fare?”, per marcarne il carattere urgente e propositivo, con la speranza che possa essere usato come strumento culturale incisivo e contribuire a un dibattito interno ed esterno al territorio d’elezione. 

Andrea Fenoglio

La terra (non) connette

testo, video e fotografie di Andrea Fenoglio

Tra il 2013 e il 2014, la serie web della Terra che connette, ha raccontato in video scontri e incontri tra migranti e autoctoni del comparto frutticolo saluzzese (il secondo a livello nazionale). In uno degli episodi avevo filmato, ironicamente, la polemica di alcuni autoctoni che sostenevano di non avere più panchine libere, come dire: l’operaio bianco la mantiene, lo scansafatiche nero si siede a leggere…

Quell’episodio era

INCONTRI NEL QUARTIERE

Un po’ di anni fa ho iniziato la mia avventura nel saluzzese con un progetto culturale documentaristico che si chiamava La terra che connette*. Ma, nel tempo in cui ho bazzicato in uno dei più importanti comparti frutticoli italiani, di connessioni vere e proprie non ne ho viste tante.

Chi, tra gli agricoltori che ho incontrato, si è mostrato realmente interessato a conoscere la storia del maliano che gli raccoglieva le mele? Quale migrante stagionale si è mostrato curioso di apprendere qualcosa in più del gesto automatico della raccolta? Poche le persone che scelgono di vivere “tra” le cose e “connettere”. Continuare a farsi gli affari propri è il minimo comune denominatore. I trenta centesimi al chilo delle pesche, i cinque o sei euro all’ora per raccoglierle. Gesti consumati senza pretese, senza grosse prospettive. La sensazione è che non si tratti di una storia collettiva di una comunità in trasformazione.

Forse aveva ragione chi, tra i militanti allora al fianco dei migranti, diceva che la terra non poteva connettere, gli interessi di autoctoni e migranti sono troppo diversi per permettere un avvicinamento empatico tra le parti. I campi rimangono avversi nell’unico senso di contrapposizione (lo stallo politico sul tema sembrerebbe palesare questa tesi).

Solo ora mi accorgo della povertà culturale che ho incontrato in questo contemporaneo senza nome: il nostro.

Per la politica è difficile occuparsi del tema. Anche quelli seri, come il sindaco di Saluzzo Calderoni e il consigliere regionale Allemano, sono costretti a dosare ogni  sillaba, coscienti del tema scivolosissimo, sempre utilizzato per non parlarne veramente, per insabbiarlo sotto chili di isterismi e identità farneticanti. La propensione ad accantonare volentieri il tema l’ho sentita spesso, sottaciuta. Così, per esempio, nonostante “La terra che connette” avesse ricevuto contributi da tutte le fondazioni bancarie del territorio, l’assessorato alla cultura saluzzese non si è mai interessato al progetto e la fondazione culturale del territorio, pur avendo partecipato alla ricerca dei fondi, non lo ha mai utilizzato come strumento, scansandolo accuratamente, come se non ci fosse mai stata una collaborazione. Tanto per dire quanto sia difficile approfondire e trattare sul serio il tema coinvolgendo realmente gli attori del territorio.

Scrivo questo non perché serbi un qualche tipo di rancore, anzi il progetto si è pagato e mi ha dato anche soddisfazioni, scrivo, polemicamente, perché mi fa rabbia vedere istituzioni e persone che si ostinano a non voler guardare il cambiamento enorme che ci coinvolge tutti e mette in discussione parecchie cose del nostro vivere comune.

Con questo chiaramente non dico che non ci siano uomini e donne coscienti, che ogni giorno agiscono per ottenere risultati positivi, “Saluzzo Migrante” ne è una dimostrazione. Ma sarebbe troppo facile per me parlare bene della Caritas, visto che queste storie mi vengono pagate dall’otto per mille della Chiesa Cattolica.

Il discorso è che tiriamo avanti la carretta ogni giorno ma non so con quanta consapevolezza. Le grandi trasformazioni demografiche forse non andranno a braccetto con evoluzioni positive dal punto di vista democratico. Saremo e siamo testimoni e attori di questo cambiamento. Proprio per questo la cosa più pericolosa è convincerci che possiamo resistere passivamente, arroccandoci su identità statiche che cozzano con la natura stessa dell’universo in continuo cambiamento di cui siamo parte integrante.

Allora diciamoci alcune verità seppure parziali:

1) Da sempre l’uomo emigra, anzi, come hanno mostrato Calzolari e Pievani, è un carattere evolutivo fondamentale di Homo e, in generale, di tutte le specie viventi.

2) Il continente africano subisce e subirà un incremento demografico che ne fa e farà sempre di più “scoppiare” la popolazione: nei prossimi 30 anni passerà da poco più di 1 miliardo di persone a 2,5 miliardi. 

3) Insieme alle cause politico/economiche che determinano l’emigrazione c’è da aggiungere una terza causa che sembra non voler avere pari dignità: la desertificazione di ampi territori che provocano un’emigrazione ambientale direttamente legata al cambiamento climatico repentino di questi anni. 

4) Noi ci allarmiamo per l’immigrazione intensiva di questi anni ma lo sappiamo che i paesi che subiscono più immigrazione sono africani? Con l’accumularsi di campi profughi diventati città ghetto. 

LIBERTÀ DI MIGRARE il libro di Calzolari e Pievani

LO STUDIO DELLA COLUMBIA UNIVERSITY che lega migrazioni e cambiamento climatico

I PAESI CHE OSPITANO PIÙ RIFUGIATI (sono tutti in Africa e in Medio Oriente)

Rinchiusi nella nostra fortezza che crediamo eterna, recinto culturale e fisico, feticcio identitario, non riusciamo a renderci conto di essere in mezzo al cambiamento e che non è possibile rinchiuderci da qualche parte. Allora cosa potremmo fare? Come per ogni situazione critica, saperne utilizzare le potenzialità nascoste è un primo passo. Renderci conto che l’arrivo di nuove forze può aiutare anche gli autoctoni dovrebbe saltarci in mente, costringerci ad avere delle idee per aiutare “loro” e “noi”.

Occorrerebbe crescere professionalità atte a connettere le parti con la propositività di un pedagogo, di un educatore, di un artista. In cerca delle strade migliori, elaborando creativamente soluzioni sperimentali con le comunità locali che, via via, sarebbero da esempio ad altri territori.

La pratica territoriale deve però essere inscritta in un contesto più ampio – perlomeno europeo – capace di passare dalla paura disorganizzata a una visione lungimirante. Tra pochi decenni i movimenti demografici trasformeranno i mercati asiatici e africani (lo stanno già facendo) e probabilmente saremo “noi” ad essere attratti da “loro”.

Abbiamo presente il fenomeno che coinvolge i giovani italiani CHE EMIGRANO IN CERCA DI LAVORO?

L’attuale sindaco di Saluzzo, Mauro Calderoni, ci ricorda che ogni anno, in Italia, il saldo tra nati e morti è negativo di 200.000 unità, ogni anno muoiono più italiani di quelli che nascono e la differenza è proprio quella, maggiore degli sbarchi che ci impauriscono così tanto e che vengono puntualmente e quotidianamente strumentalizzati.

Ogni volta che si parla di sbarchi occorrerebbe aver visto il film di Fabrizio Gatti

UN UNICO DESTINO

E intanto a Saluzzo da quasi 10 anni si forma una baraccopoli che ospita più di 500 migranti stagionali, dei quali molto più della metà trovano lavoro. Il problema che si ripete a ogni stagione di raccolta (estate-autunno) è rappresentato dalla nascita di uno spazio-limbo che, con l’andare degli anni, perderà inevitabilmente il controllo. Questo problema non può essere risolto dalla Caritas, dall’altra parte però i comuni non hanno nessuno strumento legislativo per intervenire. Ecco il nodo politico di fondo, il sindaco di Saluzzo lo dice chiaramente.

Dai dati raccolti da “Saluzzo Migrante” risulta che persone che hanno soggiornato alla baraccopoli del Foro Boario hanno poi trovato lavoro in 23 comuni, distanti da Saluzzo anche 30 chilometri. Questo dato parziale ci dice che quello spazio-limbo che si è installato nella geografia del saluzzese è a tutti gli effetti diventato in questi anni un bacino di lavoratori importante per il comparto frutticolo. Da qui occorrerebbe partire per dare finalmente un corpo a quello spazio: servono idee, professionalità e, soprattutto, serve che, a livello nazionale, si dia la possibilità agli enti locali di sperimentare soluzioni che possano far convivere con dignità le comunità locali con i migranti stagionali di passaggio. Il problema va fatto venire allo scoperto e chissà che non ne esca anche qualcosa di positivo per tutte le parti in causa.

È molto importante la proposta avanzata dal Sindaco e varrebbe la pena di prendere al volo l’occasione di fare diventare Saluzzo un vero e proprio laboratorio capace di sperimentare pratiche positive di accoglienza dei migranti stagionali. D’altronde l’innovazione di una società invecchiata come la nostra passa anche attraverso queste occasioni. Saluzzo ha dimostrato in questi anni di essere un territorio affidabile, è l’ora di un salto di qualità che sblocchi un vero e proprio stallo politico.

Guardate le immagini del campo del Foro Boario nello smantellamento del 2013, la situazione del 2017 continua a essere molto simile, con la differenza – sostanziale – dell’allestimento di bagni, docce e elettricità, tramite l’intervento di Caritas e comune di Saluzzo.

Proprio in quei giorni avevo intervistato, nel campo ormai deserto, l’allora sindaco di Saluzzo Paolo Allemano, era l’autunno del 2013.

Poi Allemano fa alcune considerazioni sul campo abusivo che, confinando con il palazzetto delle fiere del Foro Boario, costringe la cittadinanza a guardare in faccia quello spazio-limbo di cui scrivevamo. Le fiere agricole delle ultime estati sono infatti caratterizzate da questa dicotomia contrastante che vede, da una parte della recinzione, trattori e macchinari agricoli di ultima generazione e, dall’altra, il campo abusivo costruito con materiali di fortuna presi “a prestito” dalla vicina eco-isola.

L’argomentazione di Allemano denota la ricerca di una visione capace di andare al di là dell’emergenza contingente, su tutte la necessità di regolamentare il fenomeno. Proprio per questo, una volta eletto consigliere regionale, nel 2016, Allemano elabora una legge regionale che faciliti l’accoglienza in cascina dei lavoratori agricoli stagionali (l. regionale 12/2016). Un primo passo verso un ragionamento politico integrato che non porti a soluzioni emergenziali o puramente assistenziali e che contribuisca a un’evoluzione culturale del territorio. E qui, per “cultura”, intendiamo riferirci all’etimologia stretta del termine: “cultura animi”, ovvero l’azione dell’uomo che coltiva l’anima. Direi che siamo in tema con l’argomento.

cultura

 coltivare l’anima

Nella prossima puntata, ragioneremo sulla necessità dell’accoglienza come tassello fondamentale per uscire dal guado e costruire le prospettive collettive che una comunità si deve dare per poter sopravvivere e, addirittura (udite udite!), prosperare, progredire.

abbiamo sentito

Mauro Calderoni, l’attuale sindaco di Saluzzo

Paolo Allemano, ex sindaco di Saluzzo, attuale consigliere regionale

Adriano Favole, antropologo

Mohammed Elsafi, bracciante agricolo (filmato da Matteo Tortone)