Il cambiamento
Testo, video e fotografie di Andrea Fenoglio
“Mi sembra poco logico usare manodopera alloggiata a carico della collettività”
A ragion veduta, non era poi così vero quanto scrivevo nella prima puntata. La terra connette, eccome! Lo slancio utopico aiuta ogni tanto a guardare oltre l’inquadratura stretta del proprio contemporaneo. Se penso a fondo alle storie che mi è capitato di raccogliere in questi anni, allora riesco a vedere più chiare delle connessioni che apparivano poco evidenti. È un po’ come un viaggio nello spazio e nel tempo. Forse è questa la prima cosa che succede quando si guarda al di fuori del proprio orto, giardino, frutteto, della propria cascina. Si intravedono fili e nodi che legano, intrecciano storie, prima distanti e ora, improvvisamente, vicine. È quello che succede quando si smette di fissare “le cose” e si seguono “le trasformazioni”, il cambiamento. La sensazione di partecipare a processi storici vicini e lontani al medesimo tempo.
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* Questa è una sequenza di SU CAMPI AVVERSI, il film di Andrea Fenoglio e Matteo Tortone, prodotto dalla Terra che connette
Convolvoli,
sul recinto intorno alla porta
che di notte sprango
Se riuscissimo a spingere più in là l’immaginazione, vedremmo campi di fagioli e arachidi seminati con il denaro guadagnato raccogliendo frutta nel saluzzese. Inizieremmo così a vedere la “terra che connette” con tutte le sue ininterrotte differenze e sfumature: climatiche, culturali, demografiche… Varcata la soglia del cancello della nostra cascina, vedremmo aprirsi un mondo di cui siamo parte integrante, questo il senso profondo di quei “campi avversi” che, lungi dal dividere, ci coinvolgono tutti. Finché non ci sentiremo di nuovo parte di quel mondo, al di là di noi e delle nostre proprietà, non potremo capire e neanche agire politicamente aspettandoci risultati veramente positivi. Che lo vogliamo o no il futuro è una storia collettiva. Questo è il momento di cogliere la connessione tra un frutteto Saluzzese e un campo di arachidi in Burkina Faso.
D’accordo, ma dove sono le basi “politiche” dalle quali partire per un ragionamento così dirompente?!
“Qui adesso lo viviamo, ci siamo dentro”
siamo esseri che si proiettano nel futuro
Se il senso di un progetto come “Saluzzo Migrante” è quello di dare una prospettiva, offrire visioni di futuro che riescano a risolvere problemi e non ad alimentare ideologie sterili, allora questo è il terreno da battere. Ma qui ci vuole una connessione, una conoscenza, una disponibilità al dialogo e al cambiamento, tali da farci intuire che – al di là dei “piccoli passi” e dei tentativi “territoriali” di tappare i buchi, le falle, diciamo così, democratiche – va elaborata una visione di più ampio respiro che sembra ancora mancare. Adriano Favole aiuta a posizionarci sulle coordinate di una prospettiva del genere. Quanto corrisponde al sentire comune contemporaneo la sua riflessione? Quanto siamo realmente disposti a cambiare?
Per cambiare occorre essere disposti a lasciare alle spalle delle cose. Lo sapremo fare con delle politiche o saremo obbligati dal corso degli eventi?
Eppure sembrerebbe così lineare riuscire a costruire una politica chiara, che riesca finalmente a regolamentare l’immigrazione – al di là del fatto umanitario – attraverso un contratto serio, sobrio, anche freddamente “liberale”. Dare dignità e identità al migrante corrisponde alla possibilità di stipulare un patto tra le parti che serve a costruire prospettive, liberandoci da automatismi arrugginiti che provocano uno stallo sociale e politico da troppi anni, la vicenda “ius soli” lo dimostra.
Le foto che abbiamo pubblicato nella puntata precedente, hanno questo significato nascosto e evidente allo stesso tempo, dipende dai punti di vista, portano con sé il peso e l’incapacità di affrontare un problema, facendo gonfiare la diffidenza, alimentando quella paura nera che giace in fondo ai nostri cuori.
quella paura nera che giace in fondo ai nostri cuori
Mi sembra che il concetto di qualità – visto a 360° – sia la stella polare del cambiamento necessario. La qualità dell’accoglienza, della relazione, del patto tra migranti e autoctoni da una parte. La qualità della produzione agricola, l’impatto ambientale, l’ecologia dall’altra. Questi aspetti si incontrano in una proposta sociale, economica e culturale che può dare risposte molto interessanti alla crisi che viviamo nel nostro contemporaneo.
È chiaro a cosa punti la “moral suasion” adottata nei confronti degli agricoltori. Il trattamento dei lavoratori deve entrare all’interno di una valutazione qualitativa complessiva del prodotto. Questa la prospettiva per creare un nuovo patto sociale che non faccia del prezzo l’unico messaggio commerciale. Un modello sociale che riesca a scalfire la superficialità dell’utilitarismo a tutti i costi e che favorisca una profondità culturale, un respiro largo, una visione ampia, nel restituire “valore” alle cose e alle persone. Ecco alcuni cambiamenti impellenti che ci chiede il nostro futuro prossimo.
“La qualità non è una formula matematica”
Quando un paio di anni fa ho filmato un frutticoltore buttare a terra l’intera produzione di pesche, ho capito che la vocazione del comparto frutticolo, nato sulla coltivazione della pesca, stava cambiando radicalmente e che eravamo nel bel mezzo di un processo che avrebbe modificato prepotentemente l’impresa agricola.
Come tutti gli altri medi e piccoli agricoltori che ho sentito in questi anni, Silvio Bossolasco vede la strada in salita. Ma, in un contesto in cui non esiste una pianificazione precisa, è lui stesso a dare delle indicazioni significative con la sua esperienza in prima linea.
Sicuramente i frutticoltori di oggi avrebbero bisogno dell’aiuto di forze più giovani, questo non è un problema di second’ordine, ma, per quanto riguarda Bossolasco, la riconversione di parte dell’azienda in biologico e i nuovi impianti di kiwi giallo, sono una prima risposta alla richiesta di qualità e di diversificazione del mercato. Ciò che sembra evidente è che la quantità generica di prodotti indistinti, sia la prima zavorra dalla quale l’agricoltore si debba liberare al più presto. Per questo, sarebbe un bel passo in avanti, costruire una pianificazione che riesca a coinvolgere gli agricoltori del territorio. Invece quello che ho visto in questi anni, è una forte frammentazione delle piccole imprese – per altro caratteristica tipicamente piemontese – e, soprattutto, un vicolo cieco, un muro invalicabile, davanti allo sguardo attonito dell’imprenditore agricolo quasi sempre di mezz’età.
“È sulle cose non a marchio, sulle cose generiche, sui prodotti che non si distinguono, che il produttore è messo veramente male oggi”

Nuovi impianti di kiwi giallo sotto serra
Ora facciamo una pausa di riflessione tirando le fila della storia recente dell’agricoltura, una storia che ha cambiato radicalmente la vita dell’uomo sulla Terra.
A Roma, al ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali, lavora da 28 anni l’agronomo e scrittore Antonio Pascale, fa l’ispettore e “gira tutta l’Italia agricola – circa 12 milioni di ettari – incontrando un sacco di agricoltori e imprenditori”. Sono andato a chiedere aiuto alla sua esperienza sul tema, per avere alcune idee sul futuro dell’agricoltura. Lui però ha voluto cominciare dal passato e ha iniziato a raccontarmi di Pinocchio…
“da Pinocchio a Master Chef”
1° atto
l’agricoltura industriale ha voluto dire:
- passare dalla fame all’abbondanza
- boom demografico
- aumento delle aspettative di vita
- diminuzione della fame a livello globale
- innovazione chimica e genetica
- meccanizzazione
2° atto
l’agricoltura sostenibile rappresenta:
- minori input chimici
- la possibilità di sfamare tutti
- miglioramento genetico
- agricoltura di precisione
3° atto
il bio-tech:
- tradizione e innovazione
- oltre l’agricoltura industriale
- oltre l’agricoltura biologica
- oltre la chimica
- fiducia ai genetisti
I
II
III
Conclusione (per adesso)
Ora, potrebbe sembrare che siamo finiti fuori strada rispetto al nostro tema principale. Sono invece convinto che i tasselli messi a disposizione in questa inchiesta, vadano interpretati attraverso una visione di insieme. Per questo chiedo al lettore uno sforzo critico e creativo, affinché si riescano a unire i puntini di queste storie tra loro anche contraddittorie.
Da par mio, credo che l’intreccio di questo racconto documentaristico, sia un invito ad assumere un altro atteggiamento nei confronti della globalizzazione. L’abbiamo sempre considerata sinonimo di omologazione, mentre invece oggi ci accorgiamo che, grazie a essa, si aprono scenari molto più complessi che portano a soluzioni e opportunità diverse, direi promiscue. Proprio per questo mi piace che, a concludere il nostro racconto, sia la testimonianza di Antonio Pascale, che mette in crisi il manicheismo troppo spesso usato per leggere la complessità del contemporaneo. Se questo vuol dire essere post-ideologici, allora ben venga questa attitudine liberatoria. Avrei potuto dare la parola al pensiero “slow” della decrescita, ma penso che sarebbe stato un passo falso per indicare un cambiamento vero. Pascale ci mette invece di fronte a un mondo, a un contesto, più “reale” direi. E ci dice che le vie per affrontare il problema ecologico di fondo, sono molteplici. La vocazione di un territorio è molto importante, ma occorre sapere sempre liberare il campo dall’incombente discorso identitario e reazionario.
Allora diciamoci una cosa che potrebbe sembrare scontata ma non lo è. Così come gli uomini non hanno un’identità pietrificata ma sempre in movimento e in trasformazione – per poter creare nuove possibilità di progresso individuale e collettivo – anche le colture non dovrebbero essere interpretate come identità di luoghi statici, ma bensì, il territorio, dovrebbe sapersi reinventare, non avendo paura di cambiare faccia e vocazione. Come dice Pascale, va bene il discorso del chilometro zero ma poi, affinché non diventi una retorica fine a se stessa, vanno cercate delle strade pratiche capaci di far convivere commercio globale e locale, all’interno di una rete di scambi economici più intelligente e organica.
E così, il concetto di “orto globale” di Pascale, ci aiuta a interpretare meglio la mappa “connettografica” che si stende in tempo reale davanti ai nostri occhi, le dinamiche di flussi e attriti del presente. La “connettografia” è, in un certo senso, l’evoluzione della vecchia cara geografia: non interpreta tanto la terra dal punto di vista dei confini morfologici e politici, ma piuttosto da quello delle connessioni. Questo è forse uno dei cambi paradigmatici più significativi che ci aiuta a intuire il futuro nel quale siamo proiettati.
Vedete che alla fine, se si scava un po’ più a fondo e non ci si accontenta degli slogan di turno, la terra può connettere sul serio?! D’altronde “sul lungo periodo i flussi hanno la meglio sugli attriti; l’offerta si connette alla domanda; lo slancio trionfa sull’inerzia”*.
In precedenza lamentavamo la mancanza di una politica capace di mettere in pratica un vero e proprio cambiamento. Se mai riusciremo a costruirne una, penso che avrà come caratteristica principale, quella di sapere operare sul “lungo periodo”. Per riuscirvi dovrà prima sciogliere il viluppo emergenziale, poi costruire un nuovo patto tra generazioni.
*CONNECTOGRAPHY di Parag Khanna

Le immagini filmate in Mali sono di Dramane Diakite, in questa foto me le sta mostrando dal suo tablet.
In questo momento condividiamo un solo pianeta, e dobbiamo lavorare insieme per proteggerlo. Per farlo è necessario abbattere le barriere interne ed esterne alle nazioni, non costruirle. Con le risorse concentrate nelle mani di pochi, dovremo imparare a condividere molto di più di quello che stiamo facendo.
STEPHEN HAWKING
abbiamo sentito

Silvio Bossolasco, frutticoltore

Adriano Favole, antropologo

Antonio Pascale, ispettore MIPAF e scrittore

Ernesto Testa, sindaco di Lagnasco

Paolo Allemano, consigliere regionale

Ayouba Sare, bracciante agricolo

Carlo Rubiolo, volontario Caritas

Riccardo Ghigo, frutticoltore